I Cocài…una storia gardesana.
“Ancò i cocài i è deventè siori anca lori”.
Questo è quello che dicevano i pescatori gardesani parlando dei Gabbiani, che venivano chiamati appunto cocài, cocàl o sardenàr.
Il senso di quel detto in dialetto veronese era che i Gabbiani, ormai, non pativano più la fame e non condividevano più la misera vita del pescatore…ora seguivano le scie dei piroscafi che avevano cominciato a solcare le acque del Lago, in quanto qualche pezzo di pane da lì ogni tanto cadeva.
Inoltre avevano ormai imparato a stare sui muretti o sui gròsti (scogli) vicino le ville signorili dove, dopo pranzo e cena, riuscivano a rimediare briciole o avanzi.
Questo detto, che ha circa un secolo, ci racconta una storia di fame e di povertà, quella che vivevano i pescatori gardesani, che consideravano i Gabbiani come amici.
Davvero i pescatori e i Gabbiani erano amici?
Si, una amicizia, un sodalizio che era antico quanto la pesca, infatti erano proprio i Gabbiani ad indicare le zone in cui transitavano i branchi di Sarde, per esempio.
Loro erano in grado di vedere i branchi lucenti di Sarde praticamente in ogni situazione atmosferica, anche con il lago increspato, o con la foschia, guidando così i pescatori nel luogo ideale dove calare le reti.
I Gabbiani erano un pò come i cani da caccia per i cacciatori.
Magari ci sembra una cosa di poco conto, ma uscire in barca a pesca una volta significava remare, si remava tutto il giorno, al freddo, al buio o sotto la pioggia o neve e non vi erano ecoscandagli o gps.
Si usavano così i punti all’orizzonte come orientamento, come i campanili delle chiese per esempio e si osservavano i Gabbiani come indicatori della presenza del pesce, soprattutto per le Sarde e Alborelle.
Tornare a casa senza pesce significava spesso non avere una cena sufficentemente adeguata o non avere nulla da vendere, che significava la stessa cosa…la povertà e gli stenti delle genti gardesane erano una cosa seria, tanto seria che il Gabbiano era, per queste sue caratteristiche di “sentinella”, persino tutelato dai pescatori, tanto era prezioso…quasi un uccello sacro.
Guai se qualche cacciatore ne avesse ucciso uno…avrebbe fatto subito i conti con i pescatori.
Come scritto all’inizio di quetso articolo le abitudini di questi uccelli ittiofagi cominciarono a modificarsi con il timido inizio di modernità, verso la prima metà del ‘900.
Queste nuove possibilità di reperire cibo indussero subito i Gabbiani a modificare le proprie abitudini, riducendo così gradualmente il loro interesse sul Lago, mentre per i pescatori la situazione cominciò a “migliorare” solo decenni dopo.
Chiudo questo articolo con un piccolo spaccato della vita gardesana di un tempo, che si evince attraverso questa amara frase riferita ai Gabbiani e riportata da Floreste Malfer nel suo libro “Il Benaco”, scritto nel 1927, che cito integralmente: “Riposano e godono in pace, dimentichi del loro vecchio amico per il quale la miseria dura ancora”.
Questa è un’altra storia che ci racconta di quel rapporto stretto tra pescatori e ambiente, tra natura e uomo…che tante volte ho citato nei miei articoli e che certo non ritornerà più, ma che rappresenta una parte di storia gardesana e vera Cultura dell’Acqua.